Uno spazio di dibattito nato dal basso, nell'ambito della coalizione "Italia Bene Comune"

Il 18 febbraio, su iniziativa di alcuni operatori dei beni culturali, si è tenuto a Roma l’incontro “Un futuro per i beni culturali”, organizzato dalla coalizione Italia bene comune: 18 relatori, almeno 150 partecipanti e quasi 4 ore di appassionato dibattito.
Abbiamo deciso di aprire questo blog per proseguire e approfondire lo scambio di idee su come costruire una nuova politica per i beni culturali. Stiamo inserendo le relazioni presentate il 18 e alcuni contributi circolati in preparazione dell'incontro e di un precedente incontro che avevamo organizzato in modo più "casereccio" a gennaio. Speriamo in futuro giungano nuovi approfondimenti e contributi alla discussione.

Abbiamo aperto anche la sezione Iniziative per i beni culturali dove vorremmo riunire l'indicazione di tutti i siti, gli incontri, le proposte sui beni culturali lanciati negli ultimi tempi. Questa moltiplicazione di iniziative è una forte spia di quanto il problema sia sentito e prossimo a esplodere ma provoca anche una dispersione di energie che rischia di rimanere inefficace. La nostra ambizione è riunire tutte le voci in un unico dibattito.


lunedì 18 febbraio 2013

Luca del Fra

La cultura serve alla cultura?

Scorrendo giornali, libri, rapporti, discorsi si apprende che la cultura serve a:
- favorire la democrazia;
- integrare i diversi gruppi sociali e gli stranieri;
- rendere le città più vivibili;
- dare un senso e una identità all’unità della nazione;
- favorire se non assicurare la pace;
- favorire quando non creare equilibrio sociale;
- generare la crescita economica –il celeberrimo volano;
- incentivare il turismo;
- dare visibilità al nome dell’Italia all’estero;
- garantire una migliore qualità della vita, e dunque anche una migliore salute;
- sconfiggere la violenza, il razzismo e cacciare i neonazisti

È incredibile che dopo tutto ciò la cultura riesca ancora a fare cultura.
Se questi fossero davvero i suoi compiti, che dunque dovrebbero ricadere anche nelle competenze del Ministero per i beni e le attività culturali, sorgono due domande:
1– a che serve avere una Presidenza del consiglio?
2 –perché investiamo così poco in cultura?
Sono domande retoriche: le bizzarre aspettative appena elencate nascono in realtà da una progressiva dispersione del significato della parola cultura che coincide con l’allargamento smisurato del suo senso. Oggi cultura vuol dire tutto e quindi non significa più nulla.
Riportare la cultura al centro dei compiti del Ministero per i beni e le attività culturali può sembrare un’ovvietà: invece non lo è affatto.
Proverei a fare una rapida carrellata di alcuni temi che spero siano affrontati oggi e la cui soluzione probabilmente potrebbe trarre vantaggio da una prospettiva squisitamente culturale.
L’occupazione.
La riforma Fornero sta dimostrando i suoi disastrosi effetti: secondo un recente sondaggio della Cgil oltre il 27% dei lavoratori precari non si è visto rinnovare il contratto di lavoro.
Siamo di fronte a un esteso ricatto occupazionale, da cui deriva un fenomeno preoccupante: dopo che molto avevamo faticato a provare a creare imprenditori –termine qui usato nella sua migliore accezione–, si torna alla vecchia figura padronale, paternalistica, volgarmente antimoderna. Cosa che ha generato il trionfo degli yes-men, di servili utili idioti che danno la guazza al padre padrone. In un settore come quello culturale, dove il lavoro è il prodotto, i risultati non tarderanno a farsi vedere.
La mia impressione poi è che nel settore cultura le cose vadano anche peggio rispetto al sondaggio della Cgil. Comunque gli ultimi dati dell’Istat disponibili (2010) indicano oltre 300 mila lavoratori precari nella cultura. Dunque, se malauguratamente i dati della Cgil corrispondono alla realtà, stanno ballando circa 100 mila posti di lavoro.
La motivazione in linea di massima è da ricercarsi nell’irrigidimento della normativa su contratti a progetto, partita iva ecc. contenuto nella legge Fornero, varata nel bel mezzo di una forte recessione.
Dopo un lungo periodo di definanziamento del settore cultura, il risultato è che vengono allontanati i precari di lungo corso, quelli con maggiore esperienza ma che proprio per questo costano un po’ di più e normativamente appaiono più problematici.
Attraverso il nodo dell’occupazione, come si sa, passa anche il consenso: in Italia non esiste alcuno statuto del lavoratore nel settore cultura, sia a livello normativo che antropologico e sociale. Per paradosso il lavoratore della cultura non ha uno statuto culturale.
È centrale affrontare questo nodo con le sue specificità, vale a dire di un settore in cui spesso i lavoratori pur essendo inquadrati o semi inquadrati all’interno di istituzioni, restano comunque autonomi e indipendenti.
Se si vuole mettere come criterio ordinatore il culturale, –e non dovrebbe essere diversamente visto che parliamo sì di lavoro ma nella cultura–, nel binomio “posto/i di lavoro” dovrà essere preminente il concetto di lavoro.
Pubblico-privato.
Qui siamo evidentemente al punto di rottura, che purtroppo nel nostro paese equivale spesso a un punto di equilibrio. Mentre molti continuano a inneggiare al salvifico intervento dei privati nella cultura, da casi come quello di Ilva, Monte dei Paschi, Finmeccanica, Angelo Rizzoli e così via, sta nuovamente emergendo il lato più oscuro e cialtrone che storicamente caratterizza una parte, si spera minoritaria, del capitalismo e dell’impresa italiana: scarso senso della legalità; profitto a ogni costo che corrisponde all’uovo oggi e spesso solo al guscio dell’uovo; l’interesse personale prima di tutto (ovvero il guscio); disinteresse per il paese.
Nel confronto tra pubblico e privato in campo culturale spiccano le Fondazioni: i loro rapporti con il Mibac sono per lo più squilibrati e, mi si lasci dire, soprattutto mal equilibrati:
Le Fondazioni dovevano garantire, tra le altre, due cose:
1 – L’indipendenza dalla politica
2 – Un apporto economico dei privati
Risultati ottenuti assai di rado.
Prendiamo il caso Maxxi perchè, al di là delle recenti polemiche, che pure hanno un fondamento, sintetizza i due aspetti.
Nel caso della mancata proiezione del film “Girlfriend in a coma” abbiamo assistito a un singolare scambio di comunicati: il Maxxi sosteneva di essere una istituzione pubblica, il ministero sosteneva essere il Maxxi una istituzione privata. Dibattito invero surreale, da cui sgorgano un dubbio e una certezza:
– la domanda è: il Maxxi è pubblico o privato?
– la certezza invece è che il film non è stato proiettato per ragioni di censura, o forse di autocensura, alla faccia dell’autonomia dalla politica.
Sempre nel CdA del Maxxi siede Beatrice Trussardi, benché Trussardi non figuri tra i soci e gli sponsor di Maxxi. Non è certo l’unico caso, ma siamo davvero l’unico paese dove si distribuiscono posti in CdA al mondo dell’impresa senza che questa partecipi economicamente.
Per rispondere alla prima domanda: il Maxxi è una Fondazione di diritto privato, ma lo Stato è di gran lunga quello che ci investe più soldi.
Quali sono allora i suoi poteri di controllo, affidati al Mibac? Assai scarsi: la legge istitutiva prevede che vigili «sul conseguimento di livelli adeguati di pubblica fruizione». Lo sbigliettamento.
Prendiamo ora un’altra struttura: La Biennale di Venezia.
La Biennale riceve dallo Stato fondi attraverso:
- la Paabac, impronunciabile acronimo della direzione generale al Paesaggio, Belle arti, Arte contemporanea, Architettura (per il Padiglione Italia);
- dal Fus spettacolo dal vivo per teatro danza e musica;
- dalla direzione generale cinema per la Mostra del cinema;
- dai beni librari;
- più altri fondi
Cosa c’è di strano? Intanto la singolare ramificazione del finanziamento, che provoca la difficoltà a capire come questa Fondazione di diritto privato sia finanziata con danaro pubblico.
Sorprende poi che il controllo sia affidato alla direzione generale del cinema: perché?
Ancor di più sorprende che questi controlli, sia nel caso della Biennale che negli altri casi in cui lo stato è il maggiore investitore, sono squisitamente amministrativi, e se talvolta si concentrano sulle quantità dei biglietti strappati (≠ da venduti), mai vertono sui criteri culturali.
Questa impostazione nasce dal trionfo della visione managerialista dei Beni Culturali, quella che di tanto in tanto sbatte in faccia al nostro paese il dato di 8 milioni di visitatori al Louvre.
Sappiamo che questo dato è fuorviante, che non ci sono strutture in Italia in grado di ospitare simili masse, che i Musei Vaticani riescono a raggiungere certi risultati di affluenza poiché possono infischiarsene delle normative di sicurezza italiane ed europee. Sappiamo infine che questo tipo di musei di massa svolgono sempre meno una funzione culturale, e si stanno trasformando in veri e propri mattatoi culturali, secondo la definizione di Jean Claire nel suo libro “L’inverno della cultura”.
Tuttavia a proposito del Louvre sarebbe bene si parlasse non solo di sbigliettamento, ma anche di altre cose:
1 - le nuove acquisizioni, come l’ultimo dipinto di Cranach, davvero un’opera maggiore nella produzione di questo artista, a confronto del nostro crocefisso ligneo detto di Michelangelo, o peggio ancora della restituzione della pala Doria, presentata impunemente come un possibile Leonardo, quando ben che vada è una copia, dunque un impossibile Leonardo. È sintomatico che per queste due opere siano stati tirati in ballo due massimi artisti della tradizione italiana: non certo per motivi scientifici, ma per una forma di rozza spettacolarizzazione;
2 - le mostre temporanee prodotte al Louvre, di un livello culturale altissimo, oggi raramente raggiungibile dal nostro paese, che pure è affetto da quel fenomeno “mostromania” che prima ricordava Vittorio Emiliani: tante mostre per lo più mediocri, tutte eguali.
Nuove acquisizioni e capacità di creare mostre e iniziative sono giusto un paio di criteri culturali, trai tanti, che sarebbe possibile applicare nella gestione dei nostri beni culturali e nel rapporto con il privato.

Autorevolezza
L’attuale governo, ora dimissionario, si è impegnato davanti alla nazione a non operare tagli alla cultura: come il suo predecessore non ha rispettato gli impegni. Tra fondi Lotto e Lavori pubblici per i Beni culturali già si parla di un possibile e raccapricciante taglio del 30% per il 2013.
Non è l’unica cosa singolare che ha fatto questo governo a proposito di Beni culturali: merita ricordare come i restauri di Pompei siano stati affidati a ben cinque ministeri, più la procura antimafia, più un prefetto, più Invitalia. A vigilare dovrebbe essere il Consiglio superiore del Mibac, che finora non ha ricevuto comunicazioni in merito.
Ci saremmo aspettati che sedicenti tecnici non si trasformassero negli ennesimi ministri-direttori artistici attribuendosi la paternità di un progetto non loro, ma che invece mettessero in condizione il Mibac di fare i restauri di Pompei come normale amministrazione, guardandosi bene dal creare questo organismo barocco e mostruoso dotato di 8 teste (Cerbero ne aveva solo tre), che a molti ha fatto pensare, magari ingiustamente, alla spartizione di una torta.
Potrei fare altri esempi e molti, ma mi fermo qui. È prioritario ridare autorevolezza al Mibac, che significa anche la capacità di rendere normale amministrazione il lavoro culturale al Mibac, cioè la normale amministrazione. Comporterà una dura opera di selezione del personale esistente, che andrà anche rimotivato visto il degrado in cui è stato costretto a lavorare; l’acquisizione di nuovo personale scelto con attenzione a tappare le voragini lasciate dai prepensionamenti dell’era Bondi; l’uso una volta tanto mirato e sensato del comma 6; e molto altro ancora.
Sappiamo tutti che dopo oltre un decennio di scorrerie non sarà facile, ma mettere in scena l’ennesima riforma del Ministero, che corrisponde poi solo a un giro valzer delle poltrone, è oramai francamente risibile. Eppure è quanto s’è visto nelle recenti nomine alle direzioni generali e alle soprintendenze, di fronte a cui viene spontanea l’esclamazione del Macbeth di Verdi: “Orrenda imago”.

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