Eppure le questioni aperte e
irrisolte sono sotto gli occhi di tutti noi ormai da anni nella loro
drammaticità e non sono mancati studi e iniziative. Due per tutti: il
seminario-incontro della Bianchi Bandinelli con un titolo sinteticamente folgorante
per la sua efficacia: “Formazione senza lavoro, lavoro senza formazione” che si
è tenuto il 27 settembre
2012
a Roma e il Libro bianco appena uscito a cura della CGIL
(
Tra crisi e grande ‘trasformazione’-
Libro bianco per il piano del lavoro 2013) che in questo mese non ha
trovato spazi adeguati di discussione se non quelli promossi dallo stesso
sindacato, pur ospitando importanti contributi di candidati della coalizione.
Eppure di che altro avremmo dovuto parlare se non di questo ovvero della centralità
degli investimenti dedicati alla protezione e alla fruizione del patrimonio
culturale e all’utilizzo di
figure
professionali riconosciute per il loro merito e il loro sapere? Perché il
problema del lavoro e del rapporto con la formazione è cruciale e lo è ancora
di più per l’Italia con riferimento alla cura dei nostri beni culturali.
Le parole per rappresentare lo
stato dell’arte non mancano, ma sono tutte in negativo: più che occupazione, bisognerebbe
parlare infatti per la gran parte dei nostri laureati e specializzati di disoccupazione,
sottoccupazione, sfruttamento della forza-lavoro e ormai massicciamente anche
di emigrazione. Il lavoro, quando c’è, è pagato come se non ci fosse stata
alcuna formazione (per non parlare del fatto che le aziende e le stesse
amministrazioni locali spesso affidano lavori a chi non ha alcuna formazione specifica).
L’assenza di trasparenza, confortata da una delle normative più arretrate non
solo in Europa, aiuta a occultare comportamenti opachi, bandi impresentabili,
livelli di retribuzione indegni di un paese europeo.
Eppure Patrizio Bianchi, Daniele
Checchi e Fabrizio Dacrema ci ricordano in un saggio ricco di informazioni e
proposte pubblicato nel citato Libro
bianco della CGIL che “la politica economica che porterà il paese fuori
dalla crisi sarà quella capace di riattivare un circolo virtuoso tra
innalzamento dei livelli di conoscenza e competenza delle persone, sviluppo
della ricerca e della innovazione, crescita dell’economia”. Non sono i soli a dirlo, dato che le loro riflessioni poggiano
su una consolidata e condivisa letteratura internazionale e non c’è traccia di
smentite tra i nostri studiosi.
Riflettendo criticamente sui
nostri settori - come del resto è giusto
fare in una simile occasione - sarebbe opportuno
ricordare che, nel nostro caso, il problema non è solo quello di innalzare, ma anche quello di adeguare le conoscenze e le competenze che
si acquisiscono nelle aule universitarie e negli altri centri di alta
formazione e di evitare ripetizioni e ridondanze sia nei contenuti che nelle
strutture che erogano la formazione. E’
sicuramente il caso tra l’altro delle numerosissime scuole per le pubbliche
amministrazioni, difese strenuamente dalle amministrazioni di appartenenza
(Ministero dell’economia e delle finanze, Ministero dell’interno che ne ha più
di una, Ministero degli esteri, oltre naturalmente al Ministero della funzione
pubblica), senza che una seria valutazione del loro ruolo sia mai stata
realizzata e, quindi, di fatto totalmente ignorate dai recenti e dolorosi
interventi di spending review.
E’ anche il caso (per tutt’altre
ragioni) delle scuole d’archivio che da 15 anni il Mibac non sembra capace di (o
non vuole?) riformare, per cui si chiamano ancora Scuole di archivistica,
paleografia e diplomatica, mentre la società italiana ha bisogno soprattutto –
tanto per fare un esempio – di archivisti esperti nella gestione documentale e
nel trattamento digitale delle fonti.
Eppure, esempi positivi non
mancano per riformare i percorsi formativi con oculatezza ma anche creatività e
coraggio. Si è operato in questa direzione nel campo del restauro. Perché non
utilizzare quell’esperienza anche in altri settori? Tenendo conto naturalmente
delle specificità di ciascuno e della necessità di operare con modalità
adeguate alla complessità dei problemi, con l’attenzione che richiedono
tradizioni consolidate che non devono andare perdute. La riforma dei curricula
e dei percorsi formativi in materia di restauro non è stata indolore: sono
passati anni perché il confronto tra i numerosi attori coinvolti desse frutti
positivi; si sono dovuti accettare alcuni compromessi e nuove impegnative forme
di gestione e controllo, oltre che di pianificazione e ri-progettazione delle
scuole e dei corsi di studio esistenti (universitari e non) hanno dovuto essere
introdotte per assicurare qualità e coerenza dei processi ed evitare la
frammentazione che oggi caratterizza gran parte dell’offerta formativa degli
altri campi della tutela. Non sono mancati momenti vivaci di confronto con le
associazioni dei professionisti del settore e con gli interessi consolidati.
Non si è potuto né voluto ignorare il ruolo della formazione di livello
regionale su cui è fondamentale tornare a riflettere per proporre, non solo nel
campo del restauro, interventi che garantiscano efficienza e impediscano lo
spreco di risorse e di tempo che oggi, tranne qualche importante eccezione, è
sotto gli occhi di tutti.
I contenuti e i livelli dell’alta formazione
Il mondo delle imprese spesso
rimprovera ai centri pubblici di alta formazione l’inadeguatezza dei loro programmi,
la loro astrattezza. Ormai ce lo rimproverano gli stessi giovani che in 7 anni
di formazione (laurea triennale, laurea magistrale, scuola di specializzazione)
spesso non fanno altro che ripetere il medesimo percorso formativo del primo
livello e che sono costretti a trovare sul mercato (incluso quello costoso dei
master universitari) quelle conoscenze che il mondo accademico sembra ignorare.
Su questo aspetto dovremmo fare molta chiarezza e molta auto-critica tutti per trovare percorsi sostenibili,
qualificati e autorevoli. Non è possibile affrontare in poche battute la questione
spinosa del terzo livello formativo (dottorato o scuola di specializzazione)
per i professionisti dei beni culturali. Non dovrebbe esserci dubbio che per
svolgere il compito alto della tutela che compete al Ministero e a tutte le
istituzioni preposte alla tutela (ad esempio negli enti locali e nelle Regioni)
è necessario un livello di formazione alto che includa un rapporto solido e
costante con le attività di ricerca e una rigorosa conoscenza metodologica (di
conseguenza l’acquisizione di un titolo pari a quello rilasciato dalle Scuole
di specializzazione o di dottorato), come del resto ormai è richiesto
obbligatoriamente a coloro che intendano affrontare la carriera di docente universitario.
Se questo è vero, tuttavia, è
anche indispensabile discutere la qualità e l’adeguatezza delle conoscenze,
delle competenze e delle abilità di cui ha bisogno il mercato (pubblico e
privato) nei nostri campi. Si tratta di nodi complessi e delicati, come si è in
parte già ricordato, che avrebbero bisogno di un’analisi specifica e interventi
mirati. Al contrario, in questi ultimi dieci anni, con la complicità bipartisan
di ministri diversi, si è operato con l’accetta omologando settori e ambiti
disciplinari, e riducendo le questioni
delicate della formazione dei nuovi profili tecnico-scientifici a questioni
tabellari, senza margini per aggiustamenti di qualità, senza considerare il
ruolo strategico di una collaborazione necessaria tra Università e istituzioni
della tutela. Una formazione mirata, curata non solo sul piano della
metodologia scientifica ma anche sul fronte delle tecniche e delle tecnologie,
è ancora più rilevante nel nostro paese caratterizzato in tutti i settori
occupazionali da un alto tasso di arretratezza culturale del settore
occupazionale.
L’arretratezza culturale del quadro occupazionale italiano
Come ci ricordano gli studi di settore, negli
anni che precedono la crisi (dal 2004 al 2008) in Italia, contrariamente a
quanto è avvenuto in tutti i paesi
europei, è diminuita in proporzione la quota di personale ad alta
specializzazione. I nostri giovani laureati – i più preparati, i più
determinati ma anche quelli più sostenuti dal reddito familiare – hanno dovuto trovare
lavoro all’estero. I dati disponibili (fonte Isfol) sono impressionanti: 59
mila laureati nel 2012, di cui il 27,9 per cento lascia il Paese: abbiamo meno
laureati di tutti gli altri e un terzo se ne va ogni anno, accolto altrove a
braccia aperte perché la nostra formazione, nonostante i suoi limiti, è ancora
tra le migliori. Un flusso di denaro investito nel nostro futuro che si
disperde quotidianamente.
Imprese deboli culturalmente
(anche se si occupano di cultura) che non trovano stimoli nei centri di ricerca
ormai impoveriti sia nel numero dei ricercatori che impiegano che nella totale
assenza di fondi per la ricerca e l’innovazione. Imprese la cui debolezza
culturale ed economica, favorita dalla mancanza di serie politiche pubbliche
orientate alla trasparenza e all’accountability
del processo decisionale, si
accompagna sempre più spesso alla resa a comportamenti illegali, allo
sfruttamento del personale precario e che in alcuni settori – penso a quello
dell’outsourcing per l’informatizzazione o per la gestione e conservazione dei
patrimoni documentari – sembrano addirittura attirare anche capitali illegali,
come testimoniano alcuni episodi di cronaca di questi anni. La conservazione
delle memorie documentarie delle pubbliche amministrazioni, da decenni
trascurate e ignorate, sembra prestarsi più di altri ambiti a una gestione
dequalificata, a interventi massivi che prefigurano facili guadagni anche in
ragione di scarsi controlli e della colpevole ignoranza di una dirigenza
pubblica che manca di adeguata qualificazione in questo ambito, facile preda di
proposte che promettono servizi efficienti a fronte di costosissimi e inutili
processi di smaterializzazione selvaggia.
La necessità della interazione tra istituzioni e di conoscenze e
analisi condivise
Sono nodi strutturali la cui
natura complessa non deve essere ignorata allorché si discute(rà) dell’ennesima
riforma degli assetti istituzionali del Mibac o del Miur o, ancora, dei titoli
di studio e della, anche in questo caso, ennesima riforma di settore. Perché il
sistema sofferente delle nostre istituzioni culturali non collassi
definitivamente, è necessario un confronto continuo che tenga conto delle
molteplici relazioni inter-istituzionali. E’ indispensabile sviluppare quelle
capacità di ascolto e dialogo, che sono purtroppo mancate nei decenni passati.
Voglio quindi rivolgere un invito
a chi ci ascolta (non solo ai candidati e a chi, speriamo, guiderà la
coalizione di governo del centro-sinistra, ma anche agli operatori che con
passione e abnegazione hanno resistito in questi anni durissimi e che ancora
oggi sono stati capaci di indirizzare positivamente la loro rabbia,
organizzando incontri come questi, di confronto e di richiamo alle responsabilità
congiunte della politica e delle istituzioni)
Non mettiamo mano a nuove riforme senza aver prima pensato insieme il futuro e quindi
senza aver riconosciuto e superato la rassegnazione
di cui siamo vittime e di cui si è data testimonianza in queste settimane
rafforzando i canali di comunicazione che ci hanno visto riuniti in questa
occasione. Conosciamo certo tutto quello che non va, soprattutto sappiamo
calcolare quanto sia andato perduto in questi anni, ma singolarmente abbiamo
una visione parziale, legata ai contesti specifici in cui operiamo. Rischiamo
quindi di adottare soluzioni altrettanto parziali, frammentarie, dispersive,
alla fine inutili se non controproducenti (come quelle che in questi ultimi
quindici anni hanno tormentato gli assetti della ricerca e del patrimonio
culturale). Le gravissime debolezze di oggi vengono da lontano: i pessimi
governi che ci hanno preceduto sono colpevoli anche di non averle viste o di
non aver voluto metterci mano con il coraggio e l’intelligenza necessari che avrebbero
implicato in primo luogo l’umiltà del confronto, di un confronto allargato che
non può limitarsi ai singoli portatori di interesse.
Per restare nell’ambito del mio
intervento, quello dell’alta formazione (oltre ad avviare risorse coerenti con
gli standard europei, che implicherebbero una spesa più che doppia rispetto alle
risorse disponibili finora in Italia), è necessario almeno che:
-
l’offerta di formazione professionale e tecnica
sia coerentemente sviluppata in relazione al bisogno di disporre di figure
capaci di coniugare conoscenze metodologiche rigorose nel proprio dominio
scientifico ma anche strumenti
(altrettanto qualificati) per la gestione di processi produttivi e di uso
avanzato delle tecnologie e dei linguaggi della rappresentazione della
conoscenza,
-
si promuovano
percorsi personalizzati verso il
mercato del lavoro e si favoriscano i contatti con le imprese con interventi
premianti di tutorato.
Poiché si tratta di questioni ben
più impegnative di quelle elencate nei programmi elettorali, serve un
investimento strutturale e sistematico, di lunga durata. Serve un sistema
integrato fondato sulla capacità di interazione continua tra i diversi soggetti
anche al fine di garantire la flessibilità di cui abbiamo bisogno, nel rispetto
delle specificità dei nostri settori e con la consapevolezza che non è affatto detto
che tutti gli ambiti del patrimonio culturale debbano condividere le stesse
soluzioni. Anzi bisognerebbe avere il coraggio di riconoscere che è vero ed è
utile esattamente il contrario. Le scuole di specializzazione che oggi hanno tutte la stessa struttura,
natura e finalità, ad esempio, dovrebbero potersi distinguere in base ai
settori di cui si occupano. Nel caso degli archivi bisognerebbe tenere conto
del ruolo della rete delle scuole degli archivi di stato, con cui si dovrebbero
avviare seri programmi di collaborazione. Una collaborazione possibile e
produttiva a condizione che si condivida un processo di analisi critica per
tutti gli attori, per le Università da un lato e per i centri di formazione
ministeriale dall’altro, con riferimento ai propri punti di forza e di
debolezza (come è avvenuto del resto nel caso prima ricordato delle scuole per
il restauro). Nello specifico ambito archivistico, che conosco meglio e per il
quale quindi sono in grado di proporre esempi concreti, si dovrebbe quindi riconoscere
(a livello regolamentare) che la formazione di ingresso può ed è bene che sia
differenziata e pluralista con la conseguenza di consentire che i programmi ‘tabellari’
possano prevedere debiti e crediti e articolarsi più liberamente in ragione
delle diverse provenienze di origine degli studenti a fronte di un obiettivo
finale unitario. Oggi, lo statuto
unitario delle scuole di specializzazione non lo consente, con la conseguenza di
dover seguire un modello rigido e scarsamente funzionale.
I piccoli passi, l’elenco di proposte
frammentarie e isolate che abbiamo letto nei programmi elettorali sono ben
lungi dal fornire le basi da cui prendere le mosse.
Per definire quel quadro strategico di riferimento di cui la
salvaguardia e la piena fruizione del patrimonio hanno necessità, bisogna
ripartire proprio dalle istituzioni (innanzitutto quelle su cui poggia la
formazione universitaria e quelle della tutela del patrimonio) e da meccanismi
nuovi che consentano loro di cooperare e di assumere decisioni responsabili e
sostenibili. La differenza rispetto al passato è che le istituzioni stesse non
devono solo essere difese, ma devono anche rimettersi in gioco unitariamente,
superando gelosie e contrapposizioni ormai insostenibili e sviluppando un
sistema generale di promozione, riconoscimento e valutazione della qualità dei
servizi offerti da ciascuna (altro aspetto cruciale e tutt’altro che indolore
per tutte le istituzioni culturali e di ricerca). Occasioni concrete non mancano: ad esempio definendo nel
concreto quegli standard di conoscenze, competenze e abilità professionali che
richiede la recente legge 4/2013 in
materia di professioni non
ordinistiche (la quasi totalità delle professioni del patrimonio). Su tale base
si dovrebbe poi modificare il Codice dei beni culturali e del paesaggio in modo
da definire i profili di riferimento (per il mercato e per gli enti pubblici) dei
professionisti del patrimonio, in analogia con quanto già avvenuto per la
figura del “restauratore” e del “collaboratore restauratore” e si dovrebbe
stabilire, analogamente a quanto previsto per l’archeologia preventiva, che
chiunque nel privato o nel pubblico affidi compiti inerenti il patrimonio debba
attenersi ai profili di competenza tecnica previsti e ai relativi livelli di
formazione.
I
problemi ora evidenziati richiedono un requisito, idoneo a sostenere un quadro
di cooperazione inter-istituzionale: la creazione di un Tavolo misto possibilmente permanente MIUR/MIBAC che includa anche la
partecipazione di rappresentanti della Conferenza permanente Stato-Regioni e
degli enti locali per i necessari raccordi con l’istruzione professionale
regionale, con il compito di riconsiderare, riordinare e
armonizzare i percorsi formativi per
tutti i potenziali professionisti del patrimonio con l’ambizione di garantire loro
competenze scientificamente solide ma anche trasversali e allineate con le
esigenze in costante evoluzione del sistema produttivo; competenze quindi spendibili,
riconosciute e quindi remunerate a livello dignitoso come meritano sia il
nostro patrimonio che i nostri giovani e meno giovani professionisti.
Mariella Guercio,
Università di Roma Sapienza, Digilab
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