Questo mio breve intervento è frutto del confronto e dello scambio con colleghi e soprattutto colleghe -perché il precariato dei beni culturali è formato in maggioranza da donne- accomunati da un percorso formativo (laurea umanistica, specializzazione, dottorato, svariati corsi e master fra cui la Scuola di APD) e professionale (borse di studio, assegni di ricerca, collaborazioni volontarie e tirocini presso archivi, soprintendenze, istituti, etc.) di altissima specializzazione al quale corrisponde una condizione contrattuale ed economica (quindi personale) ad alto tasso di precarietà. Questo è vero, per almeno tre generazioni ormai, nell’Università come nel MiBAC.
Già questa breve presentazione biografico-generazionale focalizza la questione centrale su cui mi vorrei soffermare, vale a dire lo smarrimento della storica centralità della cultura umanistica in Italia, le cui cause vanno ricercate soprattutto nei processi di formazione (o di mancata adeguata formazione) e negli sbocchi occupazionali (o di disoccupazione). Per non rischiare di cadere nell’indeterminatezza (se non addirittura nella retorica rassegnata) della definizione di “precariato intellettuale” è anzitutto necessario mettere in luce il filo rosso che lega i problemi dell’offerta formativa dell’area umanistica e la domanda occupazionale che proviene dall’ampio settore pubblico dei beni culturali di competenza del MiBAC nelle sue interrelazioni con l'inevitabilmente minore capacità di reclutamento del sistema universitario, tralasciando in questa sede la pur cruciale questione del settore privato legato alla cultura.
La necessità di tematizzare il problema in questi termini, per poi riflettere e intervenire in modo congiunto su questo intreccio, valutando in modo interconnesso i singoli aspetti di criticità, ci sembra la premessa indispensabile per approntare soluzioni concrete e puntuali, come pure per sottrarsi alla genericità del problema dei cosiddetti “tagli alla cultura”.
Esiste dunque un preciso settore di professionisti dei beni culturali composto di persone, in prevalenza donne, che si sono formate ai più alti gradi di studio delle discipline umanistiche e che continuano a prestare il loro servizio presso le amministrazioni pubbliche permettendo il loro funzionamento grazie alle forme più varie di contrattualizzazione (dagli assegni di ricerca all’Università alla costellazione di tipologie contrattuali, lecite e illecite, a cui attinge il MiBAC) al di fuori di qualsiasi percorso chiaro e definito di accesso all’assunzione lavorativa.
Ovviamente la questione non riguarda solo il blocco generazionale già esistente e di cui sono testimone (a cui si somma un precariato precedente che impone un ragionamento su eventuali limiti di età nell'entrata in ruolo) - due generazioni almeno assunte nel Mibac per effetto del reclutamento di massa e all’assunzione diretta sancita dalle leggi 300/1970 e 285/1977 e blocco del reclutamento universitario anche a fronte del massiccio calo del personale docente –, ma anche la prospettiva di riassetto dei ministeri e l'obbligo morale di evitare alle nuove generazioni le vie di accesso al lavoro farraginose e frustranti che hanno colpito i loro fratelli e sorelle maggiori.
1. prospettive dei giovani laureati (FONTI: Miur, anagrafe nazionale degli studenti; dichiarazione criticità del CUN al Ministro del gennaio 2013):
- Diminuzione immatricolazioni, da 338.482 (2003-04) a 280.144 (2011-12), come se fosse scomparso un Ateneo come la Statale di Milano.
- Iscrizioni Area umanistica (maschi sono circa 1/4 delle femmine): flessione da 66.425 (2003-04) a 53.026 (2008-09) fino a 48.076 (2011-12)
- Necessità di incentivare, anziché scoraggiare le iscrizioni all'Università (anche nelle discipline ritenute meno utili ai fini degli sbocchi lavorativi) poiché la percentuale dei laureati in Italia è drammaticamente bassa: tra i 30-34 anni laureati il 19% contro una media europea del 30%, dati da valutare assieme al parallelo e paradossale taglio al diritto allo studio (borse, residenze, ecc.)
Proposte :
1. percorsi formativi ben calibrati sull'offerta di lavoro (e non per questo iper-specializzati/tecnici e falsamente professionalizzanti, come dimostrato dalla moltiplicazione e parcellizzazione dei corsi di Laurea che contribuiscono a perdere il senso della cultura umanistica) e percorsi di carriera universitaria pre-ruolo ben definiti e uniformati (non basta, come propone la Legge Gelmini, porre un tetto massimo di 12 anni al precariato delle borse e degli assegni di ricerca, ma occorre un ripensamento complessivo della carriera accademica a tutti i livelli e, anche qui, non è sufficiente un'abilitazione nazionale per far valere il principio del merito se poi il reclutamento si svolge interamente a livello locale).
2. un concorso su base nazionale con scelta della sede da parte del candidato in base alla graduatoria (previa fissazione del numero dei posti per regione in base al fabbisogno effettivo) con test preselettivi sulle materie d’esame, che riconosca in termini di punteggio le precedenti collaborazioni con gli istituti centrali e periferici del MiBAC.
Il numero dei posti messi a concorso dovrà risultare dal confronto tra la
pianta organica aggiornata del MiBAC e il censimento del personale precario
di cui il MiBAC regolarmente si avvale (in alcuni casi da oltre dieci anni).
Proponiamo inoltre che i contratti esterni siano regolamentati secondo la
legge (riforma del lavoro 92/2012 che pure non ci soddisfa e che ci si spera
il prossimo governo voglia migliorare) e retribuiti come da CCNL.
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