(relazione presentata al Consiglio superiore per i beni culturali su temi analoghi a quelli trattati nel corso dell’intervento all’incontro del 18 febbraio)
Caro Presidente, cari colleghi,
come ho avuto modo di sostenere fin dal mia prima partecipazione alle riunioni del Consiglio, in un momento di particolare difficoltà, quale quello che viviamo, fatto non solo di drammatici tagli alle risorse disponibili, ma anche di profonde e rapide trasformazioni, il compito del Consiglio, di cui mi onoro di far parte, dovrebbe essere principalmente orientato alla elaborazione di analisi e di proposte che consentano, in alcuni casi anche a costo zero, di introdurre novità che rendano più efficace, oltre che più adeguata al progresso metodologico e culturale registrato negli ultimi decenni nel campo dei beni culturali e paesaggistici, l’azione del Ministero e, in generale l’attività di conoscenza, tutela, valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale.
Mi permetto, pertanto, riprendendo anche temi affrontati in altri miei contributi e nell’attività svolta nelle Consulte Universitarie di Archeologia e in qualità di Presidente della Società degli Archeologi Medievisti Italiani, di sottoporre alla Vostra attenzione alcune mie considerazioni e alcune mie proposte preliminari, che spero possano essere utili all’avvio di un confronto che mi auguro ci impegni nel prossimo futuro, eventualmente anche attraverso la costituzione di un gruppo di lavoro.
Contro
la settorialità e per la globalità
Parto da alcune
considerazioni relative all’archeologia, disciplina che conosco un po’ meglio, che
però credo possano essere estese anche agli altri ambiti dei beni culturali.
L’archeologia si
è rinnovata radicalmente nell’ultimo mezzo secolo, modificando i suoi metodi e
i suoi obiettivi: dall’antico come luogo privilegiato del passato all’intero
arco di tempo dell’esperienza umana, dal vecchio continente all’intero pianeta,
dagli aspetti culturali agli aspetti (anche) ambientali, dall’evoluzione
storica alla prospettiva (anche) antropologica, dallo studio della forma a
quello della materia, dal privilegio per l’arte a quello (onnicomprensivo) per
i prodotti del lavoro.
Contestualmente
all’innovazione metodologica si è andato affermando un nuovo ruolo culturale e
sociale: non a caso si è andata sviluppando quella che viene definita
‘archeologia pubblica’.
A fronte del
profondo processo di rinnovamento dell’archeologia in relazione alle fasi della
ricerca, dalla diagnostica allo scavo stratigrafico e all’archeologia dei
paesaggi, alle applicazioni delle scienze e delle tecnologie innovative, si
registra un ritardo culturale e organizzativo nel sistema di tutela, definito agli
inizi del secolo scorso e sostanzialmente legato ancora ad una concezione
ottocentesca, caratterizzata da un’impostazione antiquaria e accademica. Gli
sconvolgimenti legislativi e organizzativi degli ultimi decenni hanno reso
questa struttura ancor più farraginosa ed elefantiaca, senza, però, mai mettere
in discussione la sostanza, le finalità e gli esiti della tutela. I rischi di tale situazione sono assai gravi: oltre alla perdita
di interi insiemi di dati, un danno ancor più rilevante consiste nella
progressiva perdita di un ruolo nella società, nell’incapacità di
coinvolgimento di ampi settori della popolazione in un’azione condivisa di
salvaguardia e valorizzazione di un bene comune, nell’affermazione di una
concezione esclusivamente turistica ed economicistica dei beni culturali (che
pure non è da sottovalutare), nell’identificazione della tutela solo con
un’iniziativa di tipo repressivo e poliziesco, avvertita come fastidiosa e
inutile, anche perché resa spesso inefficace a causa dell’inefficienza del
sistema
La
risposta a questi problemi non può più consistere semplicemente
nell’arroccamento e nella difesa della situazione esistente o addirittura in un
irrealistico e anacronistico ritorno al passato o tradursi nella mera denuncia
(peraltro giusta e necessaria) delle sempre maggiori difficoltà in cui operano
le soprintendenze, prive di mezzi e di personale adeguati ai compiti assegnati.
Chi pone
fortemente, come lo scrivente, il problema di un ripensamento profondo del
sistema della tutela non condivide affatto certi atteggiamenti strumentalmente
ostili al Ministero, tipici di certi ambienti, ma al contrario propone una
battaglia nel senso dell’innovazione, fatta per il rilancio di strutture e
attività ormai irrimediabilmente in crisi,
con un sincero sostegno alle Soprintendenze e ai colleghi che in quelle
strutture tra mille difficoltà operano. Negare la crisi, questa sì che è una
posizione che porta inevitabilmente alla dissoluzione, prima o poi, del
sistema. Troppo spesso si ha l’impressione di intravvedere nell’atteggiamento di
conservazione dello status quo di
tanti colleghi l’immagine di un soldato messo a guardia di un bidone di
benzina: un bidone, però, ormai vuoto. Un soldato, che, impegnato in battaglie
contro presunti nemici esterni, non si rende conto che in realtà il tarlo sta
operando all’interno del sistema della tutela. In tal senso, sono convinto che
il vero problema non sia solo di ordine finanziario, ma innanzitutto
metodologico e culturale.
Nel Ministero, e
in particolare nelle sue articolazioni periferiche, ai problemi legati alle
scarse risorse, allo scarso personale, sempre più anziano, al limitatissimo
turn over, si associa una diffusa sensazione di impotenza e di frustrazione, che
spesso si traduce in arroccamento, in difesa di rendite di posizione, in
contrapposizioni contro altri componenti dello stesso Stato, con le quali, al
contrario, oggi più che mai sarebbe necessaria, anzi obbligata, un’alleanza.
L’affermazione
del fondamentale e insostituibile ruolo pubblico della tutela non può, infatti,
non tradursi in un radicale riesame del significato stesso della tutela e nella
progettazione di nuove soluzioni adeguate ai tempi. Come ha sostenuto Daniele
Manacorda, «se il passato è di tutti, il problema si sposta
sulle forme in cui mettere tutti in condizione di possederlo, cioè di
conoscerlo: è dunque un problema politico». La perdita di solidarietà, di
sostegno, di attenzione, non solo da parte del ceto politico ma anche, cosa più
importante, da parte della società in cui operiamo, rischia di trasformare
l’inesorabile disgregazione, a cui da tempo assistiamo, del sistema della tutela
in un processo che potrebbe essere ben illustrato da due celebri opere di P.
Bruegel: come ‘i ciechi’ procediamo in fila verso il baratro e come nella
‘caduta di Icaro’, la caduta avviene nella più completa indifferenza, mentre il
contadino ara e il pastore controlla il gregge, volgendo le spalle alla
disgrazia, indicata, in un angolo del quadro, solo da due gambette agitate
fuori dalla superficie marina.
Nell’opera di
tutela e valorizzazione, come in quella di ricerca, andrebbe abbandonata
definitivamente una concezione
‘puntiforme’, limitata al singolo sito o manufatto, cioè quella visione
‘filatelica’ dei beni culturali che finisce per considerare i singoli ‘beni’
come francobolli, estendendo l’azione ad interi contesti territoriali. La nuova
parola d’ordine deve essere, quindi, globalità:
e, prima di tutto, globalità di approccio, di fonti, di strumenti, di
competenze, di sensibilità. Salvatore Settis insiste da tempo sulla vera
peculiarità dei beni culturali italiani, cioè la presenza diffusa, il continuum di beni, grandi e piccoli,
nelle città, nelle campagne, lungo le coste, nelle acque, che contrasta con
l’idea, finora prevalente, della tutela che nella prassi finisce per frantumare
proprio quel continuum peculiare del
nostro patrimonio culturale. La specificità del nostro patrimonio culturale
consiste invece nell’integrazione tra beni culturali e paesaggio.
Come ha più
volte sottolineato un caro amico e collega tragicamente scomparso, Riccardo
Francovich, bisogna esser consapevoli che «la tutela non è l’esercizio di
un’azione asettica e oggettiva, ma l’opzione operata sulla base di scelte che
cambiano nel tempo e nella qualità della formazione di chi la esercita; … è
ovvio che più soggetti, più sensibilità e ‘saperi’ nuovi saranno inclusi nei
processi decisionali, maggiori prospettive esisteranno per chi intende
contribuire alla soluzione dei problemi della salvaguardia e della
valorizzazione del patrimonio». Basti pensare all’enorme dilatazione dei campi
di applicazione dell’archeologia dalla preistoria più remota all’età moderna e
contemporanea, all’estensione del concetto stesso di reperto a tutti gli
oggetti fino alle soglie della contemporaneità, ben oltre gli ormai
tradizionali confini della stessa età medievale, all’attenzione ora riservata
non solo ai manufatti ma anche agli ecofatti e all’ambiente. Solo il
coinvolgimento di più soggetti e competenze potrebbe aprire maggiori
prospettive per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio.
Andrebbero
pertanto ripensati il ruolo e la struttura del Ministero per i Beni e le
Attività culturali, riportato all’originaria fisionomia tecnico-scientifica,
con un centro agile, cui attribuire compiti di indirizzo, coordinamento e
rigido controllo, e unità operative periferiche uniche – le attuali Direzioni -,
non più settoriali, fondate su reali e strette
collaborazioni, a livello locale, tra tutte le componenti del sistema pubblico.
Collaborazioni non più legate esclusivamente ai momentanei buoni rapporti tra
il singolo ricercatore e il soprintendente o il funzionario di zona, ma
inserite in un sistema organico: unità operative miste delle Soprintendenze/Direzioni,
delle Università, delle Regioni e degli enti locali, veri e propri ‘policlinici
dell’archeologia’ (secondo una felice definizione proposta in varie occasioni
da Andrea Carandini) o, meglio, ‘policlinici
dei beni culturali e del paesaggio’ (secondo una proposta spesso avanzata da
chi scrive), aperti all’innovazione metodologica e tecnologica. Gli
strumenti diagnostici tipici delle moderne discipline dei beni culturali e dei
paesaggi, dal telerilevamento alle prospezioni geofisiche, dalle applicazioni
scientifiche in campo bioarcheologico e geoarcheologico all’archeometria e al
restauro, dalla ricognizione sistematica allo scavo, dalle nuove tecniche di
rilievo, documentazione e comunicazione ai sistemi informativi territoriali,
possono, infatti, offrire un contributo straordinario. Solo così si potrebbe attuare una più efficace opera di tutela e
valorizzazione diffusa, attenta ai contesti territoriali, ai centri storici e
ai paesaggi stratificati, collegandola strettamente alla ricerca, abbandonando
vecchie rendite di posizioni, separando la gestione dal controllo (ancora oggi
nelle stesse mani), e soprattutto avviando politiche ‘inclusive’ e non
esclusive e ottusamente centraliste e superando definitivamente quel conflitto
che oggi contrappone Soprintendenze, Università ed Enti locali, mettendo in
comune strutture, competenze, professionalità.
Un esperimento riuscito
La
recente positiva esperienza della ‘Carta dei Beni Culturali della Puglia’, nata
non a caso nell’ambito del nuovo Pianto Paesaggistico Territoriale Regionale,
realizzata dalla Direzione Regionale ai BCP e dalle quattro università
pugliesi, dimostra che questa collaborazione e integrazione è possibile. Si
è affrontato il tema del patrimonio culturale con una visione olistica, tesa a
descrivere, a narrare e a rappresentare ogni
luogo nel quale la storia si è depositata sotto forma di stratificazione, qualificando
come beni culturali tutte le tracce, ancora riconoscibili sul territorio, della
presenza dell’uomo e del suo lavoro.
I modelli di schede messi a punto,
adottando gli standard definiti dai modelli catalografici prodotti dall’ICCD,
puntano a superarne la frammentazione in schede diverse a seconda delle
categorie di beni culturali da descrivere, ed evitando definitivamente di
ricorrere a distinzioni tutte accademiche di tipo disciplinare quali “bene
archeologico o “bene architettonico”, “bene artistico”, ecc. Tale superamento è
stato reso necessario, peraltro, dall’evidente inadeguatezza di tali concetti a
definire beni pluristratificati e complessi quali sono spesso quelli che
insistono su territori di così ampia e ininterrotta antropizzazione come quello
italiano. Infine, data la natura profondamente contestuale del patrimonio
culturale, solo così è possibile tentare una lettura integrata e diacronica del
rapporto che ha legato tra loro alcuni beni culturali, nel contesto ambientale
e paesaggistico.
Innovazione
per valorizzare la tradizione
L’Italia ha un
indubbio primato nel campo degli studi e della tutela del patrimonio culturale;
un primato riconosciuto a livello mondiale, che si sta progressivamente
depauperando. La necessaria e giusta consapevolezza della ricchezza e qualità
delle nostre tradizioni di studi non deve impedirci, però, di guardare avanti.
Anzi!
Da tempo,
infatti, siamo bloccati, rattrappiti, ancorati a certezze inossidabili che non
osiamo mettere in discussione, evitando di scorgere le tracce di ruggine che si
dilatano progressivamente al di sotto della vernice e corrode ormai dal di
dentro la struttura.
Non è più
accettabile una visione che separa le architetture e le opere d’arte al loro
interno dalle stratificazioni poste al disotto. Dovremmo al contrario
comprendere che organizzare una tutela innovativa significa superare la
separazione tra monumenti e stratigraficazioni, abbandonare assurde e
anacronistiche divisioni cronologiche, che si traducono a volte anche in
conflitti tra soprintendenze settoriali e/o tra queste e studiosi impegnati in
attività di ricerca: sono testimone degli scontri, alcuni anni fa (segnati anche
da continue sostituzioni di serrature) tra una soprintendenza ai beni
architettonici che si occupava del restauro di un battistero paleocristiano ben
conservato in elevato, effettuando anche scavi all’interno del monumento, e quella ai beni archeologici che conduceva
scavi nell’area circostante dove è stata individuata la chiesa paleocristiana,
che, insieme al battistero, era parte integrante del complesso sacro, peraltro
sviluppatosi su quartieri di età romana e necropoli preromane e interessato da
forme di rioccupazione e riuso in età medievale e moderna: un caso assai
consueto in Italia. Un collega mi ha raccontato qualche giorno fa dell’assurda
richiesta della Soprintendenza ai beni artistici di estrapolare dai sacchetti
delle varie unità stratigrafiche i materiali di età moderna, perché di propria
competenza. Ma gli esempi potrebbero essere innumerevoli.
L’elemento
comune, il tessuto connettivo, il filo che lega tutti gli elementi del patrimonio
culturale, è, infatti, il paesaggio,
che va posto al centro dell’azione di
tutela, con le sue stratificazioni, le sue architetture, i suoi arredi e
corredi d’ogni tempo, gli uni indissolubilmente legati agli altri.
Bisogna superare
una lunga tradizione che distingue impropriamente pitture e sculture dai muri,
mosaici dagli ambienti di cui erano parte, le opere d’arte dai monumenti, dalle
città, dalle strade e dal territorio rurale, e finalmente considerare l’oggetto
della tutela l’insieme delle opere dell’uomo,
così come si sono storicamente stratificate, con una visione globale, diacronica e contestuale, che dia un senso alle
continuità e alle rotture. Un approccio che dovrebbe coniugarsi strettamente
con la pianificazione urbanistica e territoriale.
Si dovrebbe, quindi,
avere il coraggio di rifondare il
sistema della tutela superando
definitivamente la deleteria
frammentazione disciplinare delle soprintendenze, basata su una concezione
del sapere accademica e irrimediabilmente vecchia, rimovendo potentissimi
ostacoli di inerzia intellettuale e burocratica.
Il problema,
dunque, non è rappresentato tanto da un’impropria alternativa tra centralismo e
decentramento, tema che ha fin troppo appassionato gli addetti ai lavori,
quanto dalla necessità di trasformare
gli uffici di tutela da apparati
corporativamente autoreferenziali in centri di un sistema permeabile volto
all’interesse generale nella conoscenza, nella salvaguardia e nella valorizzazione
del patrimonio.
Un’analoga
innovazione dovrebbe riguardare la formazione, considerando le università non più il luogo nel quale si
formano professionalità improbabili e precarie nel campo dei beni culturali, ma
il luogo nel quale, in stretta collaborazione con le soprintendenze
(esattamente come avviene in campo medico nelle Aziende Ospedaliere
Universitarie), i giovani possano confrontarsi direttamente con le diverse realtà
del patrimonio culturale, misurandosi con problemi concreti, come fanno i loro
colleghi apprendisti medici nei policlinici.
Innovazione, per
un sistema della tutela di uno Stato maturo, significa anche assumersi la
responsabilità di una dismissione di potere, separando la gestione dal coordinamento-controllo, superando
l’assurda concezione ‘proprietaria’,
oggi prevalente, e realizzando processi realmente inclusivi che favoriscano
processi di collaborazione, di cittadinanza attiva, di coinvolgimento
dell’associazionismo, di progetti sperimentali di affidamento di aree e
monumenti ad associazioni di cittadini, a fondazioni di partecipazione, alla
società civile organizzata, anche ai non specialisti, certamente aiutati e
monitorati.
Innovare
significa garantire la libera circolazione dei dati, contro una concezione
proprietaria dello Stato che impedisce, in ossequio a leggi anacronistiche
nella realtà del web e dell’open access, la libera riproduzione dei beni
culturali pubblici.
In conclusione, mi
permetto di avanzare alcune prime proposte:
<!--[if !supportLists]-->a)
<!--[endif]-->Portare a conclusione il processo che ha
visto l’istituzione delle Direzioni Regionali per i Beni Culturali e Paesaggistici,
che, attualmente, pur con vari aspetti positivi nell’azione di coordinamento, aggiungendosi
alle Soprintendenze settoriali si è tradotta in un aumento dell’aspetto
burocratico, in un ulteriore appesantimento amministrativo, spesso in
complicazioni e sovrapposizioni di funzioni e competenze, non di rado
difficilmente comprensibili per il cittadino e per gli enti locali. Bisognerebbe,
invece, eliminare definitivamente le Soprintendenze di settore, assorbendo
interamente le loro funzioni nelle Direzioni Regionali. Sarebbe necessario,
insomma, affidare ad un unico soggetto, poco importa se denominato
Soprintendenza o Direzione, tutte le competenze sull’intero patrimonio
culturale e paesaggistico di un territorio, regionale o subregionale, nel caso
di territori regionali eccessivamente vasti e complessi. Nella costituzione di tali
organismi unici di tutela si dovrebbe evitare di riprodurre al loro interno l’attuale
ripartizione settoriale, ma si dovrebbe favorire una reale integrazione e
valorizzazione di competenze, specialismi, strutture, archivi, servizi, costituendo
cioè reali équipe miste. In tal modo, non solo si potrebbero attuare politiche organiche e globali di tutela
dell’intero patrimonio culturale e paesaggistico, ma si potrebbero meglio
utilizzare le scarse risorse finanziarie ed umane disponibili.
<!--[if !supportLists]-->b)
<!--[endif]-->Creare, a base regionale, attraverso
precisi accordi tra MIBAC e MIUR, strutture miste tra Direzioni regionali e
Università, in modo da integrare e mettere in comune competenze, strutture,
laboratori, tecnologie, elaborando precisi programmi comuni relativi alle varie
fasi, dalla tutela alla ricerca, alla formazione, alla comunicazione e divulgazione.
<!--[if !supportLists]-->c)
<!--[endif]-->Realizzare, a base regionale, accordi
con le Regioni per meglio coordinare le attività di conoscenza, tutela,
formazione, con quelle di valorizzazione e fruizione e di politica urbanistica
e pianificazione territoriale.
<!--[if !supportLists]-->d)
<!--[endif]-->Separare nettamente l’attività di
gestione da quella di controllo e coordinamento, affidando la prima alle Soprintendenze
uniche/Direzioni Regionali, e la seconda al Ministero. Bisognerebbe, in
particolate, evitare il rischio (e spesso la prassi) di un coinvolgimento
diretto nella determinazione di chi, imprese e/o professionisti e/o Università,
debba o non debba essere attuatore delle attività sul campo, di scavi,
ricognizioni, studi, restauri, ecc.
<!--[if !supportLists]-->e)
<!--[endif]-->Favorire l’osmosi di funzioni e ruoli, tra
tutela, ricerca e formazione. I funzionari delle soprintendenze-direzioni sono
prima di tutto studiosi, ricercatori, specialisti. È, dunque, giusto oltre che
opportuno, che conducano, insieme alla tutela, anche attività di studio e
ricerca. Questa vocazione potrebbe essere valorizzata grazie ad una stretta
collaborazione con le Università, il CNR e gli altri Enti Pubblici di Ricerca.
A tal fine, anche per valorizzare il merito dei più capaci e per evitare che a
persone inadeguate siano affidati compiti di responsabilità scientifica, sarebbe
opportuno avviare programmi di valutazione della qualità della ricerca, secondo
modelli analoghi a quelli già in atto nelle Università.
Queste
innovazioni non richiedono investimenti (che pure sarebbero necessari, in
maniera adeguata, per rilanciare la tutela del patrimonio) e, pur essendo
pertinenti alla sfera culturale e teorica, hanno immediate ricadute nella
gestione del patrimonio e nella formazione di chi sarà domani chiamato a
gestirlo. È un’impresa difficile, faticosa, perché prevede scelte politiche ed
organizzative coraggiose, si scontra con i poteri delle burocrazie e con
l’inerzia del quieto vivere.
Una bella sfida
per un Consiglio Superiore per i Beni Culturali e Paesaggistici che non intenda
limitarsi ad approvare piani di riparto di risorse ormai risibili e ad
assistere impotente alla definitiva crisi del Ministero.
Giuliano Volpe
"testo presentato al
Consiglio superiore per i beni culturali"
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